giovedì 15 ottobre 2009

Testimonianze di soldati dall’operazione Piombo fuso, Gaza 2009

3 ottobre 2009




Breaking the silence è un’organizzazione di veterani che hanno servito nell’esercito israeliano durante la Seconda Intifada (dal settembre del 2000) e si sono assunti la responsabilità di raccontare al popolo israeliano le situazioni di routine della vita quotidiana nei Territori Occupati, una realtà che non è presente nei media.

Sull’operazione Piombo fuso hanno raccolto una serie di testimonianze in una pubblicazione che si trova qui. Ne ho selezionato dei pezzi, ma andrebbe tradotta integralmente.

Scudi umani 1

Qualche volta l’unità entra mettendo le canne dei fucili sulla spalla di un civile, avanzando nella casa e usandolo come scudo umano. I comandanti hanno detto che queste erano le istruzioni e noi dovevamo farlo…

Scudi umani 2

Erano usati come Johnnies (in un altro punto dell’intervista il testimone ha descritto la procedura Johnny, l’uso di civili palestinesi come scudi umani durante le perquisizioni delle case) e poi rilasciati, e li ritrovavamo in perquisizioni successive.

Fosforo bianco 1

Che cos’era la storia dell’uso di bombe di mortaio al fosforo bianco?

Il comandante della compagnia dà al comandante del plotone che ha il mortaio un obiettivo e gli ordina di fare fuoco.

Che cosa c’era, lo sa?

Un obiettivo. Li definiscono obiettivi. Non so veramente dire cosa fosse. Qualche volta si sentiva alla radio: "Via libera, fosforo nell’aria". Tutto qua. Non mi ricordo se venisse confermato dal comandante della compagnia, ma so anche di un ufficiale che sparò senza chiedere l’autorizzazione.

Perché sparare fosforo?

Perché è divertente. Fantastico.

Professionalmente avete del fosforo da usare contro queste minacce?

Non so a quale scopo sia usato. Ne stavo proprio parlando ieri. Non capisco come queste munizioni siano tra i nostri rifornimenti se poi non dobbiamo usarle. È ridicolo.

Fosforo bianco 2

Poi siamo ritornati a nord, a circa 500 metri dal recinto, e siamo rimasti là di guardia tutta la notte. Non abbiamo visto niente di speciale. Il giorno dopo siamo tornati alla base per prendere nuovi ordini della missione e siamo stati di nuovo assegnati ad un’unità del battaglione *** con cui siamo entrati. Abbiamo camminato con loro sulla spiaggia e abbiamo visto tutte le bombe al fosforo bianco di cui le ho detto, abbiamo visto vetri sulla sabbia.

Può descriverlo? Che cosa ha visto?

Cammini lungo la sabbia e senti questo scricchiolio di qualcosa che viene frantumato. Abbiamo guardato per terra e abbiamo visto delle cose che sembravano frammenti di migliaia di bottiglie di vetro rotte.

Che colore avevano?

Marrone sporco.

Ne ha visto dei resti da altre parti nelle vicinanze?

C’era un’area di circa 200-300 metri quadrati di sabbia vetrosa come quella. Abbiamo capito che veniva dal fosforo bianco ed è stato sconvolgente.

Perché?

Perché durante l’addestramento si impara che il fosforo bianco non si usa, e si impara che non è umano. Si vedono dei film e si vede quello che fa alla gente che ne è colpita, e ti dici "Ecco, è quello che stiamo facendo". Non è quello che mi aspettavo di vedere. Fino a quel momento, avevo pensato di appartenere all’esercito più umano del mondo.

Fosforo bianco 3

Lì è stato senz’altro usato del fosforo bianco, l’ho visto e non ci si può sbagliare, si vedono proprio degli ombrelli infiammati.

Regole di ingaggio 1

Dall’inizio, il comandante della brigata e altri ufficiali ci hanno detto molto chiaramente che ogni movimento imponeva che si sparasse.

Indipendentemente dal tipo di movimento.

Non serve che ti sparino. Basta sospettare che ci sia un movimento, e questo prima di entrare nella nostra area designata. Non mi ricordo se l’abbia detto il comandante di brigata o qualcun altro. Non ne sono sicuro: nessuno dovrebbe essere lì, si spara ad ogni segno di movimento. Queste, essenzialmente, erano le regole di ingaggio. Spara, se vuoi. Se hai paura o se vedi qualcuno, spara.

Anche se non c’è pericolo?

Vuole dire questo, sì. Non si spara solo quando si è minacciati. Si presume di sentirsi costantemente in pericolo, quindi la minaccia è costante e si spara. In realtà nessuno ha detto "sparare comunque" o "sparare a qualsiasi cosa si muova". Ma non ci è stato ordinato di aprire il fuoco solo in caso di minaccia.

Vi sentivate minacciati, entrando?

Sì. Ricevevamo continuamente l’allerta. Il senso di minaccia letteralmente si accumulava in noi. Posso dire questo di noi, eravamo molto spaventati. In realtà non c’era motivo per esserlo, ma ci sentivamo minacciati. Non che sia successo qualcosa che lo giustificasse, ma dall’inizio siamo entrati a Gaza con la paura.

Regole di ingaggio 2

Ha fatto qualche distinzione fra civili e terroristi?

Anche questo è stato detto dopo, non nella stessa conversazione: se si vede qualcosa di sospetto e si spara, meglio colpire un innocente che esitare di colpire un obiettivo nemico. Si usa il proprio giudizio. La prima casa in cui siamo entrati non conteneva un singolo nemico. Abbiamo sparato alle finestre e non c’è stata reazione. Così siamo entrati nel modo in cui generalmente entriamo in una casa a Hebron: entriamo, chiediamo al proprietario di aprire, raduniamo tutti i maschi, li incateniamo, raccogliamo tutta la famiglia in una stanza e iniziamo a perquisire la casa. Questo normalmente in guerra non si fa.

Regole di ingaggio 3

Prosegua e chieda ai soldati quanto spesso hanno incontrato combattenti a Gaza – niente.

Quando siete entrati nella striscia di Gaza non c’era resistenza?

Quasi per niente.

Quali erano le regole di ingaggio? Portavate armi leggere?

Sì. Prima di tutto, ovunque non ci siano le nostre forze, si è esposti al fuoco. Tutto è una minaccia. Non esiste qualcosa come una procedura di arresto dei sospetti. Se individuo un sospetto, se è una minaccia per me, sparo.

Demolizioni

C’era una moschea, e non entrerò in tutti quei resoconti tradizionali sui motivi per cui c’era ancora una moschea, quelli sono per la discussione interna. Ma nel complesso, la maggior parte delle mosche è stata distrutta.

Unità rabbinica

C’erano rabbini dell’esercito che venivano e pregavano e ci davano un sacco di sostegno morale… dentro la zona, i rabbini vengono a parlarti. Un rabbino è stato portato in una casa ed era tutto eccitato per essere stato fuori sul campo con i combattenti e indossava un giubbotto protettivo di ceramica per la prima volta in 30 anni e sedeva con gli uomini a chiacchierare. Avevamo anche dei libretti editi dall’unità rabbinica con dei saggi.

Che cosa contenevano?

Saggi sull’operazione, l’importanza di servire il Popolo di Israele che è stato perseguitato in tutti questi anni e ora è ritornato nel suo Paese e deve combattere per esso. Tutti i noti clichés che mettono questo in relazione all’Olocausto e la difesa di Dio e anche perché è Gaza e il nesso con gli insediamenti evacuati di Katif, e qui stiamo ritornando nella zona di Katif, a Netzarim.

Una scala completamente diversa

Lei ha servito nell’esercito a Gaza per anni, è stata una distruzione in qualche modo simile a quelle che ha conosciuto prima?

No, nel modo più assoluto. Si è trattato di una scala completamente diversa. Questa è stata una potenza di fuoco come non ne ho mai conosciuto. Non posso dire che quando ero a Gaza non si fosse usata l’aviazione. Ma no, la terra non tremava di continuo. Voglio dire, c’erano tutto il tempo esplosioni. Se fossero lontane o vicine, questa è già semantica. Ma la nostra sensazione di fondo era che la terra tremasse costantemente. Si sentivano tutto il giorno esplosioni, la notte era piena di bagliori, un’intensità che non avevo mai provato prima. Molti bulldozer D-9 operavano 24 ore su 24, erano costantemente occupati. Questa è stata una scala di intensità molto diversa da quelle conosciute prima. Molto più grande… Guardi, quando ci sparavano, non vedevamo veramente il nemico con i nostri occhi. D’altra parte, ci sparavano e noi rispondevamo al fuoco verso punti sospetti. Che cos’è un punto sospetto? Significa che decidevi che era sospetto e potevi riversargli addosso tutta la tua rabbia.

sabato 3 ottobre 2009

Ricordi da El Khiam, il carcere israeliano nel Libano del sud

di Enrico Campofreda
Terra, 30 settembre 2009

Uscendo dal cubo rosso una scatola di ferro alta non più di cinquanta centimetri e profonda anche meno dove stava accucciato, spesso nudo, con le mani legate dietro la schiena e nelle orecchie le martellate che il giovane militare israeliano di guardia aveva l’ordine di cadenzare per ore, minuto dopo minuto - se la testa gli reggeva il “terrorista” poteva guardare l’orizzonte, verso la Palestina soggiogata. È la prigione di El Khiam, Libano del sud, che dalla liberazione del maggio 2000 un cartello avverte essere aperta. Aperta per le visite, malgrado durante la guerra dei 34 giorni del 2006 l’aviazione israeliana, bombardando il luogo, abbia provato a cancellare le tracce della sua vergogna.

El Khiam nasce dopo che, nel marzo 1978 durante il primo tentativo d’annessione dello Stato libanese, le forze armate israeliane penetrarono per decine di chilometri nel territorio meridionale ben oltre il fiume Litani. Trovava l’appoggio delle truppe dell’Els, l’esercito locale collaborazionista comandato dal maggiore Haddad, reo nell’82 d’aver affiancato i falangisti nei massacri di Sabra e Shatila. Con le successive fasi del conflitto nei primi anni Ottanta a El Khiam fu istituito un luogo di detenzione e tortura, dove sono passati migliaia di resistenti palestinesi, libanesi e semplici civili. La tortura del cubo era una delle meno cruente. C’erano quella del palo al quale venivano appesi a testa in giù i prigionieri, nudi sia in estate che in inverno, per esser presi a calci o percossi dai soldati mentre il corpo dondolava. C’erano le immancabili botte, i ferri, i getti d’acqua bollente o gelata, le ferite ricoperte di sale e limone, l’inibizione del sonno.

Un Abu Ghraib ante litteram, anche se le torture sono un vecchio, vecchissimo armamentario di qualsiasi Stato canaglia. Racconta un militante di Hezbollah, qui detenuto per quattro anni, che ora fa da guida nel luogo “chi arriva ha la possibilità di vedere il traliccio dove i prigionieri venivano appesi a testa in giù con gli occhi bendati ma possiamo solo raccontare dei corpi bagnati cui venivano inferte le scariche elettriche o quelli minacciati, quasi a contatto di morso, dal ringhiare sinistro dei cani. Le pressioni psicologiche non erano da meno: gli israeliani portavano qui le nostre donne prese dai villaggi, ce le denudavano davanti e c’intimavano di riferire dove si nascondevano i nostri compagni di lotta se non volevamo vederle violentate. Purtroppo ci furono anche stupri in questo luogo maledetto”.

Fino al 2000 qui sono passati cinquemila prigionieri di cui quattrocento donne, con una presenza continuativa di centocinquanta persone. “Nel giorno della liberazione eravamo 144. Non c’era nessuna distinzione fra adulti e minorenni, dividevo la cella con un ragazzo tredicenne, un vecchio di 77 anni e sua moglie di 74, incarcerati solo per il sospetto che vicino casa si potesse essere nascosto qualcuno della resistenza. Gli israeliani offrivano denaro a chi tradiva e li appoggiava, più o meno 5 mila dollari, e hanno trovato naturalmente in più occasione qualcuno disposto ad aiutarli. Queste persone dopo la liberazione hanno potuto godere dell’amnistia che è stata concessa, eppure noi ex prigionieri non abbiamo provato alcun desiderio di vendetta. La Croce rossa internazionale è riuscita a entrare per la prima volta a El Khiam nel 1995, cercando di apportare migliorie alle strutture, perché era ben nota la durezza delle condizioni riservate ai detenuti. Chi si trovava fra queste mura veniva considerato un disperso, con pochissime possibilità di uscirne vivo”.

Dalla fine dell’occupazione delle forze armate israeliane e della dissoluzione dell’esercito fantoccio di Haddad (guidato dall’84 dal generale Lahad e che, nonostante reclutasse anche fra gli sciiti locali, non sarebbe rimasto in vita un giorno senza il supporto d’Israele) questa prigione, per volontà di Hezbollah, è diventata una meta di memoria e turismo politico. Il Partito di Dio ha incaricato un gruppo di ex detenuti di occuparsene.

Loro, organizzati in comitato, hanno istituito un percorso guidato che spiega ai visitatori le brutalità perpetrate in questo luogo per quasi un ventennio. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di studenti e stranieri interessati ai risvolti storico-sociali del Paese. La parziale distruzione israeliana di tre anni fa ha ridefinito l’iniziale progetto ma non ne ha modificato la finalità. Che prevede una parziale ricostruzione di alcune celle danneggiate, mantenendo però intatte le macerie che ricoprono i diversi blocchi bombardati. Sono già stati predisposti pannelli esterni e piccole sale con fotografie e reperti che illustrano la fondamentale funzione giocata dalla resistenza, cavallo di battaglia del partito di Nasrallah per un Libano libero da nuove occupazioni.