sabato 3 ottobre 2009

Ricordi da El Khiam, il carcere israeliano nel Libano del sud

di Enrico Campofreda
Terra, 30 settembre 2009

Uscendo dal cubo rosso una scatola di ferro alta non più di cinquanta centimetri e profonda anche meno dove stava accucciato, spesso nudo, con le mani legate dietro la schiena e nelle orecchie le martellate che il giovane militare israeliano di guardia aveva l’ordine di cadenzare per ore, minuto dopo minuto - se la testa gli reggeva il “terrorista” poteva guardare l’orizzonte, verso la Palestina soggiogata. È la prigione di El Khiam, Libano del sud, che dalla liberazione del maggio 2000 un cartello avverte essere aperta. Aperta per le visite, malgrado durante la guerra dei 34 giorni del 2006 l’aviazione israeliana, bombardando il luogo, abbia provato a cancellare le tracce della sua vergogna.

El Khiam nasce dopo che, nel marzo 1978 durante il primo tentativo d’annessione dello Stato libanese, le forze armate israeliane penetrarono per decine di chilometri nel territorio meridionale ben oltre il fiume Litani. Trovava l’appoggio delle truppe dell’Els, l’esercito locale collaborazionista comandato dal maggiore Haddad, reo nell’82 d’aver affiancato i falangisti nei massacri di Sabra e Shatila. Con le successive fasi del conflitto nei primi anni Ottanta a El Khiam fu istituito un luogo di detenzione e tortura, dove sono passati migliaia di resistenti palestinesi, libanesi e semplici civili. La tortura del cubo era una delle meno cruente. C’erano quella del palo al quale venivano appesi a testa in giù i prigionieri, nudi sia in estate che in inverno, per esser presi a calci o percossi dai soldati mentre il corpo dondolava. C’erano le immancabili botte, i ferri, i getti d’acqua bollente o gelata, le ferite ricoperte di sale e limone, l’inibizione del sonno.

Un Abu Ghraib ante litteram, anche se le torture sono un vecchio, vecchissimo armamentario di qualsiasi Stato canaglia. Racconta un militante di Hezbollah, qui detenuto per quattro anni, che ora fa da guida nel luogo “chi arriva ha la possibilità di vedere il traliccio dove i prigionieri venivano appesi a testa in giù con gli occhi bendati ma possiamo solo raccontare dei corpi bagnati cui venivano inferte le scariche elettriche o quelli minacciati, quasi a contatto di morso, dal ringhiare sinistro dei cani. Le pressioni psicologiche non erano da meno: gli israeliani portavano qui le nostre donne prese dai villaggi, ce le denudavano davanti e c’intimavano di riferire dove si nascondevano i nostri compagni di lotta se non volevamo vederle violentate. Purtroppo ci furono anche stupri in questo luogo maledetto”.

Fino al 2000 qui sono passati cinquemila prigionieri di cui quattrocento donne, con una presenza continuativa di centocinquanta persone. “Nel giorno della liberazione eravamo 144. Non c’era nessuna distinzione fra adulti e minorenni, dividevo la cella con un ragazzo tredicenne, un vecchio di 77 anni e sua moglie di 74, incarcerati solo per il sospetto che vicino casa si potesse essere nascosto qualcuno della resistenza. Gli israeliani offrivano denaro a chi tradiva e li appoggiava, più o meno 5 mila dollari, e hanno trovato naturalmente in più occasione qualcuno disposto ad aiutarli. Queste persone dopo la liberazione hanno potuto godere dell’amnistia che è stata concessa, eppure noi ex prigionieri non abbiamo provato alcun desiderio di vendetta. La Croce rossa internazionale è riuscita a entrare per la prima volta a El Khiam nel 1995, cercando di apportare migliorie alle strutture, perché era ben nota la durezza delle condizioni riservate ai detenuti. Chi si trovava fra queste mura veniva considerato un disperso, con pochissime possibilità di uscirne vivo”.

Dalla fine dell’occupazione delle forze armate israeliane e della dissoluzione dell’esercito fantoccio di Haddad (guidato dall’84 dal generale Lahad e che, nonostante reclutasse anche fra gli sciiti locali, non sarebbe rimasto in vita un giorno senza il supporto d’Israele) questa prigione, per volontà di Hezbollah, è diventata una meta di memoria e turismo politico. Il Partito di Dio ha incaricato un gruppo di ex detenuti di occuparsene.

Loro, organizzati in comitato, hanno istituito un percorso guidato che spiega ai visitatori le brutalità perpetrate in questo luogo per quasi un ventennio. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di studenti e stranieri interessati ai risvolti storico-sociali del Paese. La parziale distruzione israeliana di tre anni fa ha ridefinito l’iniziale progetto ma non ne ha modificato la finalità. Che prevede una parziale ricostruzione di alcune celle danneggiate, mantenendo però intatte le macerie che ricoprono i diversi blocchi bombardati. Sono già stati predisposti pannelli esterni e piccole sale con fotografie e reperti che illustrano la fondamentale funzione giocata dalla resistenza, cavallo di battaglia del partito di Nasrallah per un Libano libero da nuove occupazioni.

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